Cesare Pavese e Natalia Ginzburg - Essere diversi senza essere contro

Il Giusto Volume


Il 18 dicembre, per la prima volta nell'hinterland questo inverno, c'è stata una gelata mattutina come si dovrebbe: alla stazione di *** i pendolari sono pochi e pacifici, la luce è apertissima e i binari ancora all'ombra sono coperti di brina. Da quest'ultimo dettaglio nasce - irrazionalmente e senza pretese romanzate - l'idea di mettere insieme Cesare Pavese e Natalia Ginzburg per questa rubrica.
Certo accostarli non è un'operazione originale, visto che si conoscono bene, qualcuno azzarda 'migliori amici', sicuramente compagni in un gruppo di persone "che avevano sempre lavorato e pensato insieme". Allora, più che degli amici, qui si vuole parlare degli analoghi e dei complementari.
Le considerazioni contenute in queste righe sono riferite soprattutto a due opere: la raccolta di poesie Lavorare stanca di Pavese, e Le piccole virtù della Ginzburg, raccolta di racconti e saggi brevi. Chi mai fosse ricettivo ad un consiglio - consiglio davvero sentito, per quanto possibile - su letture prossime venture, l'ha ricevuto.
Cesare Pavese e Natalia Ginzburg rappresentano il giusto volume - volume sonoro e spaziale. Il primo coinciderebbe con lo stile e la misura, il secondo con gli argomenti e i contenuti, ma naturalmente i piani si intrecciano spesso.
Nella correttezza del volume sonoro sta, più che la capacità di non dover urlare, quella di non dover usare il sottovoce allo stesso scopo. Non abusare della semplicità come cultura d'accatto delle piccole cose o, per dirla con le parole dello stesso Pavese: "quel linguaggio (…) allusivo, che troppo gratuitamente posa a essenziale". Nella Ginzburg l'innocenza stilistica non coincide certo con l'ingenuità, ma nemmeno è stretta tra i denti come il proverbiale coltello, o a mo di martello, per fare e farsi il verso. Per rendere la cosa più piccante: il livello di onestà intellettuale, a livello strettamente stilistico, è forse superiore ad alcuni considerati must dell'autenticità di oggi - dal mucchio, Alessandro Baricco ed Erri De Luca.


Dalla forma si passa al contenuto: "ora, io non nego che nella mia raccolta di questi concetti se ne possono scoprire (…) nego soltanto di averceli messi", scrive Pavese nella postfazione di Lavorare stanca. E' molto curiosa la contiguità tra questa affermazione e una definizione che è stata data della Ginzburg, anche con una punta di risentimento: "è difficile notare una finta tonta più finta di Natalia Ginzburg. La sua prima preoccupazione è di ostentare la sua ottusità". I finti tonti raccontando dicono, sempre in modo estremamente sottile, sul filo: il gusto per la verità, di cui si dirà meglio alla fine, a tratti fa perdere corpo a tutto il resto.
I temi sono 'scarni', e anche le situazioni e i luoghi su cui insistono entrambi con la loro ricerca lo sono, ma come per la forma, povertà e semplicità sono proposte in silenzio, non brandite con forza. Scrive la Ginzburg che grazie a Pavese "(…) scoprimmo, con profondo stupore, che anche della nostra grigia, pesante e impoetica città (Torino, ndr) si poteva fare poesia": ma in questa affermazione non sembra esserci l'autocompatimento, visto troppo spesso, della mente eccelsa che si vanta di fare arte nonostante la valle di lacrime in cui vive, o l'autoglorificazione dell'artista che riesce a vedere il bello perfino laddove parrebbe impossibile. C'è piuttosto un onesto senso di fatalità, spesso così forte da essere motivo di rimbrotti per Natalia da parte di Pavese stesso: "(…) essa prende per granted, con una spontaneità anch'essa granted, troppe cose della natura e della vita". Affermazione coerente, col senno di poi addirittura scontata, se si considera il destino tragico di Pavese, morto suicida il 27 agosto 1950.
Quasi sempre le caratteristiche citate per l'uno valgono anche per l'altra. In entrambi stupisce l'equilibrio: rifiutare un eccesso senza tuttavia approdare a quello opposto, che si declina nella santa capacità di essere diversi senza essere contro, nel talento di imporsi come artigiani - prima Pavese e poi la Ginzburg, non a caso, avranno l'occasione di titolare come 'mestiere' la propria ricerca - evitando comunque il narcisismo (Il mestiere del poeta, titolo della postfazione a Lavorare stanca e Il mio mestiere, saggio incluso in Le piccole virtù).
"Non fu per noi un maestro, pur avendoci insegnato tante cose" - dice la Ginzburg di Pavese. Involontariamente, forse, ha definito un grande titolo di merito, che starebbe bene anche riferito a lei stessa.
In fondo, tutto si riduce al vero: "Dire la verità. L'artista che scrive deve sempre sentirsi capace di questo. Le parole non sono che uno strumento per costruire ai personaggi un mondo artistico uguale al mondo immaginario da cui egli li ha tolti (…) i personaggi quali sono, e non quali vorrebbe che fossero. Se no i personaggi sono falsi, il mondo costruito è falso. Generalmente questo accade a chi non possiede una sua verità, e si diverte a cucinare parole. Ma può accadere anche a chi non è sufficientemente convinto della propria verità (…) dire la verità. Solo così nasce l'opera d'arte". Chi l'avrà detto tra i due? Comunque sia, non è una morale.



Giacomo Giudici

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